La famiglia Merlin è un apparato introverso, si parla poco e si manifesta ancor meno.Tina sottolinea un certo disagio nel confidarsi con i genitori, occupati e impegnati perennemente da altri pensieri. Un meccanismo che si consolida nel tempo segnando i rapporti. Le persone che si ritrovano a tavola poco prima del tramonto, perché poi si devono concludere le ultime faccende, condividono gli spazi ma non le emozioni. Rosa rimane comunque il riferimento primario per la figlia, confinando Cesare in secondo piano.
Si capivano al volo nei fatti, un po’ meno nei sentimenti che si sedimentano come il fango del Piave nelle stagioni di piena. Tra madre e figlia si plasma una patina di silenzio, sempre più spessa e rognosa da scrostare. La piccola matura sperimentando i fatti sulla pelle, facendosi guidare da una figura materna che badava al fare perché “bisognava farlo”. Mantenere l’equilibrio nell’incertezza, era questa la priorità delle famiglie contadine. Tina non ne aveva ancora preso coscienza ma non si sarebbe accontentata di rimanere a galla.
Crescendo nel ventennio fascista non era affatto raro imbattersi in manifestazioni, sabati in onore del partito o quant’altro fosse idoneo alla propaganda. In una di queste occasioni Tina sperimenta apertamente la discriminazione verso i portafogli meno pesanti. Il pregiudizio rimaneva un’arma potente, nonostante un contorno floreale dipinto dal partito. Le parole rimasero ben distinte dai fatti, d’altronde il monopolio dell’informazione era in mano al governo e la comunicazione assunse un ruolo fondamentale. La profonda operazione pubblicitaria a favore di un ideale che avrebbe dovuto unire ogni angolo d’Italia si rivelò per quello che era: una promessa non mantenuta, una favola. L’aggregazione popolare rimase un’utopia. Piuttosto il fascismo divenne una grande opportunità per mettersi in mostra o per rincorrere una posizione migliore. Bastava dire di sì. Tina ripercorre quindi i momenti vissuti al tramonto dell’infanzia, citando un anniversario fascista andato male. Un episodio che fu una delle tante prese di coscienza - e quindi di posizione - che la porteranno a sposare lo schieramento opposto ad una linea di pensiero lontana dai suoi ideali.
“In quarta elementare ero orgogliosa d’essere stata scelta per la squadra del ginnico in piazza, non mi ricordo per quale anniversario fascista [...] Con Odilio, figlio del segretario del fascio, provavamo i movimento il sabato pomeriggio [...] Dovevamo presentarci in divisa di piccole italiane: camicetta bianca, gonna nera, calze e scarpe nere [...] Piansi e implorai mia madre che non voleva spendere una lira per comprarmi la divisa [...] Alla fine si commosse e raffazzonò alla bell’e meglio dei vestiti ricavandoli da quelli dismessi dei miei fratelli e sorelle [...] Le compagne risero non appena mi videro così conciata nel cortile della scuola [...] Odilio mi rifilò subito in ultima fila. Secondo il mio intendimento, avrebbe dovuto far finta di niente, lasciarmi nella fila dov’ero, sottrarmi ai lazzi delle compagne. Lo odiai, per quell’umiliazione [...] Odilio, che era maggiore di pochi anni alla ragazze che “istruiva”, scherzava solo con quelle “della piazza” [...] Capii d’essere di un’altra razza. Fu il primo barlume verso la comprensione istintiva d’esistere non solo come persona singola ma come entità più grande che comprendeva un mondo numeroso di gente uguale a me e ai miei genitori. Di gente per qualche ragione diversa dagli Odili”
Eccola qui la prima crepa. Da questo momento le domande cominciano a intensificarsi, il tessuto sociale è interpretabile a seconda del protagonista. Il trattamento verso le “bambine della piazza” è il primo campanello d’allarme che inquieta e scuote. Tacere diventa l’unica cosa sensata da fare, altrimenti si rischia qualche guaio. Perlomeno per il momento.
La quarta elementare si conclude discretamente, nonostante Tina e coetanee debbano recitare due parti contrapposte: la mattina come studentesse per trasformarsi, dopo l’ora di pranzo, in instancabili lavoratrici. Manca soltanto un anno al diploma ma il lavoro non molla la presa. A casa Merlin non ci si ferma, soprattutto se si è donne. A guidare la brigata, Rosa.
“Da piccola ho molto desiderato essere un maschio per venire maggiormente considerata dai miei genitori e dalla gente”
L’ultimo periodo di scuola elementare è il più difficile. La stringente alternanza scuola-lavoro non permette a Tina di eccellere in aula. Non è la peggiore ma deve fare i conti con le regole imposte ai meno abbienti. Chinare la testa, chiudere gli occhi e accettare il suo destino. Perdipiù la famiglia Merlin non è che sia proprio invischiata nel partito dai neri vestiti. Se ne stanno a debita distanza. Ma per quanto si tenti di scappare, Tina viene raggiunta. La insegue un cane rognoso che non demorde, che non perde occasione di avventarsi su una preda piuttosto facile. Viene bocciata, viene penalizzata da una maestra incapace di distinguere tra chi - finita la scuola - doveva sgobbare e chi invece aveva tutto il tempo di dedicarsi allo studio. Una lettura parziale da parte di chi avrebbe dovuto impegnarsi a formare la società del futuro, si potrebbe pensare. E invece le nuove leve ideali al fascio non coincidevano con Tina Merlin e chi, come lei, era relegata ai margini sociali. Magari queste realtà avrebbero potuto anche incrociarsi, soprattutto se i Merlin avessero chiuso un occhio, se avessero soprasseduto a certe dinamiche. E con loro tante altre famiglie.
Ma le terre alle porte delle Dolomiti, rustiche e rurali, si opposero. Prima in silenzio e poi armandosi. Il seme dell’opposizione germogliò fin dalla tarda infanzia, soprattutto al cospetto di queste disparità che - rispetto ai tempi moderni - avevano un impatto severo nello sviluppo personale e professionale di un soggetto. A meno di clamorosi colpi di fortuna, non c’erano altre opportunità.
Come se non bastasse, oltre alla “maestra in divisa”, un’altra insegnante promosse una compagna con un rendimento ancor meno soddisfacente. Terminate le lezioni si occupava delle faccende domestiche in casa dell’insegnante. Una raccomandazione in piena regola.
La vergogna della bocciatura fu tagliente ma la ferita scottò poco, non c’era tempo per lamentarsi. Si doveva andare avanti, anche senza il pezzo di carta che rimaneva in fin dei conti quello che era. Cominciò l’epoca “sotto padrone”, obbligata ad imparare tutto - e in fretta - oltre a girovagare tra le case e le attività del paese. Una fase d’apprendistato che le permise comunque di rimanere a casa - nel rione di Santa Tecla - per i primi anni. Giusto il tempo di concludere quel processo di crescita chiamato “infanzia” per iniziare col botto il periodo adolescenziale che la porterà lontana dal paese: a Milano.
“In realtà non dovevo imparare granché. Sapevo già riordinare una casa e arrangiarmi con i fornelli. Ciò che dovevo in realtà imparare era “star sotto”, come pensava mia madre. Imparare a ubbidire ai padroni e a starmene zitta”
Sebbene in famiglia la manifestazione di sentimenti, emozioni e pensieri non fosse all’ordine del giorno - al primo posto continuavano a rimanere il lavoro e il silenzio - Tina riesce a conservare un discreto entusiasmo nei confronti della vita. Affronta con determinazione le possibilità che le vengono offerte. Scalini ripidi ma necessari per arrivare a conquistarsi l’indipendenza. Nemmeno le continue angherie riescono ad ossidare le fondamenta di una moralità in costruzione ma già ben ancorata a valori sociali e solidali. A questo punto siamo nel 1938, la Merlin ha compiuto dodici anni e il paese oramai è un realtà limitante e limitata se si vuol guadagnare qualche soldo in più.
Milano, tramite una delle sorelle, diventa quindi il nuovo punto di partenza per una carriera da “tuttofare” che sembra in discesa. Nel capoluogo lombardo si parla la lingua di città, si vive una vita agiata senza le fatiche contadine e rurali di Trichiana. A Milano ci si sposta con il tram e ci si arriva con il treno. E’ roba da ricchi. Quello che però manca è l’empatia, quel lato cordiale e accomodante con cui è cresciuta tra le campagne di Trichiana ai piedi delle montagne. Quel lato in cui le famiglie - il più delle volte - si sostenevano per non crollare. Magari soltanto con un piatto di minestra, con l’aiuto nei campi a raccogliere patate, prelevando la ghiaia dalla Marteniga per tenere pulito il corso d’acqua e abbellire la strada bianca che portava nei cortili delle case, tirando letteralmente fuori di casa persone e animali durante le alluvioni in cui i torrenti spaccavano gli argini, condividendo momenti di quotidianità, ascoltandosi e piangendo insieme nei periodi di guerra. Una semplice pacca sulla spalla a dire “io ci sono” la si poteva ancora trovare a Trichiana, nonostante il fascio e le profonde differenze sociali tra quelli dei campi e quelli della piazza. A Milano, complice l’enorme numero di abitanti, era molto difficile incappare in questi lati - umani - prettamente “poveri” ma incredibilmente ricchi.
L’esperienza lavorativa è possibile grazie a Ida, una delle sorelle, già presente in città. Nella permanenza milanese le vennero offerte diverse opportunità, come se il solo pensiero di trovar lavoro fosse stato sufficiente per accasarsi da qualche parte. Sembrava fin troppo facile e naturale. Eppure, in molti casi, si rivelò solamente facciata. Un meccanismo, quest’ultimo, non ancora esplorato dalla giovanissima bellunese che nel 1938 prende le misure nella stessa casa della sorella. Il ritmo lavorativo e il distacco dalla famiglia, dalla madre, passarono in secondo piano. Muoversi in città era diverso, altrettanto interagire con persone lontane dalla minuscola realtà di Santa Tecla. Quello era un mondo a parte, costruito e fatto su misura per lei nonostante le difficoltà. Non che non potesse continuare a essere così ma, nel giro di pochi giorni, si rese conto di come quel sogno - prima o poi - si sarebbe interrotto. Laggiù doveva salire sui tram, destreggiarsi nel traffico e stare attenta alle fermate degli autobus. Lassù saliva sugli alberi, si destreggiava con gli animali nei campi e stare attenta che le volpi non entrassero nei pollai.
La stagione 1938 passò piuttosto in fretta e relativamente bene.
Niente da segnalare a parte lo sguardo complice e - decisamente - stravagante di qualche maschio. A dodici anni compiuti capì - inequivocabilmente - di aver imboccato ad alta velocità la strada dell’adolescenza. La bimba di Trichiana era lanciata verso il futuro, di lì a pochi anni sarebbe diventata una donna. L’arte del saper far tutto le tornò comoda, anche perché l’anno successivo trovò lavoro come “bambinaia” fin da subito grazie ad un passaparola arzigogolato e fruttuoso. Un’esperienza che la segnò, per nulla positiva. Fu costretta a tagliare la corda alla prima occasione, dopo angherie e diversa discriminazione da parte della prole che non smise mai di ricordarle la sua condizione: era una “serva” e - come tale - doveva accontentarsi di avere avuto la fortuna di trovare un lavoro.
La feccia umana, che ben si manifesta in giovane età, si spinse oltre il limite invalicabile del rispetto. Lo scavalcò a pié pari. Offese, mani alzate e sputi costrinsero Tina a reagire. La città a quel punto divenne un incubo. Non tanto per il contesto a cui comunque mancavano innumerevoli input naturali. Piuttosto per il ceto sociale, discriminante e ignorante con cui si trovò ad avere a che fare. Andarsene per ricominciare da altre parti era una vergogna, un disonore ancor più grave della bocciatura di qualche anno prima. Ma era inevitabile per sentirsi al sicuro: sia nel corpo che nella mente.
Nel ‘41 e nel ‘42 trovò maggiore stabilità, complice qualche compleanno in più. Non concesse spazio ai corteggiamenti dei ragazzi ma si accorse di essere diventata piuttosto piacente. Era una bella ragazza, a prima vista più grande di quel che si scriveva nei documenti, decisa, determinata ed indipendente.
Santa Tecla era lontana ma le sirene di un nuovo pericolo, di una nuova guerra all’orizzonte la spinsero a fare marcia indietro. Anche perché su Milano già nel 1940 vennero sganciate le prime bombe. Episodi che si intensificarono negli anni successivi minacciando seriamente vite e averi della popolazione. Tina era in pericolo e nel ‘43, su insistenza della madre che temeva di perderla, fece ritorno a Trichiana. Era partita a dodici anni, aveva lavorato come “serva” senza rispetto, si era forgiata nel caos di una città sconfinata, aveva assaporato la discriminazione dei più e apprezzato l’umanità dei pochissimi che la considerarono alla “pari”, aveva ricevuto sputi, minacce e una volta era stata messa al muro dal figlio dei suoi datori di lavoro. Il fuoco di rivalsa che aveva dentro sin dalla tenera età venne gonfiato da queste esperienze, non smise mai di ardere. A Santa Tecla imboccò il vialetto di casa - curato con le candide ghiaie del torrente dal padre - non più una ragazza ma una donna fatta e finita. Una donna che di lì a poco si sarebbe schierata a difesa della sua terra contro gli invasori e i deviati che cominciarono a rastrellare i civili. La seconda guerra mondiale entrò nel vivo mietendo migliaia di morti. E Tina, come i fratelli, non si tirò indietro. Tutt’altro.
“Non so se faccio bene o male, ma quel periodo è per me ancora tanto vivo che l’ho continuamente presente e credo che non lo dimenticherò mai. E poi voglio che mio figlio impari da piccolo che cos’è la guerra perché da grandi la odi con tutte le sue forze”
Gli anni dell'invasione tedesca spaccarono le comunità. Da una parte chi appoggiava i nazi fascisti, dall'altra chi li arginava. Fenomeni di violenza estrema macchiarono la provincia bellunese e Trichiana divenne uno dei molteplici punti caldi di un'area infuocata. La gente si studiava reciprocamente, non si poteva essere certi di chi si aveva di fronte. Per strada, dal fornaio, in chiesa, nei normali contesti di quotidianità la tensione era alle stelle. L'esercito nazifascista rastrellava, la resistenza partigiana sabotava. Erano a strettissimo contatto in un territorio di modeste dimensioni e compresso tra i monti. Era pressoché naturale distrarsi e parlare un po’ troppo o commettere un errore, rivelando informazioni preziose. Potenzialmente letali per entrambe le fazioni. Sottolineare lo schieramento della Merlin potrebbe essere superfluo, ma non lo è. Fino al ‘42 è stata una vita faticosa, mai agevolata da nessuno. Ma una cosa è cambiata: si sente parte di un mondo umile, sempre modesto e raramente sopra le righe. Una realtà nella quale, per guadagnarsi la libertà, è necessario essere pronti a perdere tutto da un momento all’altro.
“Di doman non v’è certezza” avrebbe detto qualcuno.
I primi scontri sono sanguinosi. Le brigate partigiane non si tirano indietro e combattono a denti stretti. Cadaveri maciullati dalle bombe o freddati da piogge di proiettili vengono portati via dalle strade quando il teatro dello scontro si placa, quando il canto delle cicale prende il posto del fragore delle esplosioni.
Toni, il fratello di Tina, parte per le montagne. I partigiani si ritrovano là in alto. Possono monitorare i versanti delle valli, conoscono bene i pendii e i colli dove nascondersi. Difficile trovarli, pressoché impossibile andarli a stanare. Per Rosa è l’inizio di un incubo ancor peggiore di quello vissuto nemmeno trent’anni prima: la prospettiva di non vedere più il figlio la annienta. Toni e Tina rimangono in contatto: la sorella partecipa attivamente alle staffette, trasporta comunicazioni, messaggi e biglietti. Li smista tra i paesi, sfidando a viso aperto i posti di blocco tedeschi che sono a caccia di informatori. Le donne, le ragazze a maggior ragione di bell’aspetto, non le avvertono come un pericolo. Un grave errore che in un primo momento consente alla resistenza di passare in vantaggio al primo giro di un circuito che durerà tre anni. “Achtung Bandit” - nella piana bellunese il brodo bolle, i tedeschi conoscono molto bene la resistenza. Passano casa per casa, alla ricerca di uomini e ragazzi misteriosamente scomparsi. Non si trovano più da nessuna parte. Chi è disperso in guerra, chi è morto, chi è prigioniero in qualche campo di concentramento al di fuori dei confini. Le famiglie affrontano i commandi infuriati che bussano alle porte di casa. Insultano, picchiano, distruggono ma raramente trovano chi cercano. Madri, padri, fratelli e sorelle stanno facendo la loro parte: non parla nessuno, tutti sanno del movimento di resistenza ma fino a un certo punto. Tina, informata sulle manovre del fratello e della brigata, non rivelerà mai alla madre dove si trova Toni. Sotto tortura o semplicemente per una leggera superificialità dettata dallo stress, avrebbe potuto dire una parola in più. Come lei, molte altre madri rimarranno in attesa. Ma Rosa, a pochi giorni dalla fine della guerra, è attesa dall’ennesima tragedia che le porterà via per sempre l’ultimo figlio maschio. Una pallottola in fronte, in uno degli ultimi scontri, colpisce Toni. Per Tina, che ne riconosce il corpo, la tragedia della perdita del fratello si amalgama al rimpianto di non aver mai rivelato alla madre dove si trovasse. Lei sapeva, ma la guerra - purtroppo - era anche questa. In famiglia rimasero le donne: una a Milano, una con qualche problema di salute mentale e poi Tina. Terminato il conflitto comincia a scrivere, trovando diverso spazio nel giornale l’Unità dal 1951 al 1967. Combatte e denuncia per fermare una catastrofe annunciata. La genesi di una donna “scomoda” parte da lontano per materializzarsi poi nelle pagine di un giornale di sinistra. Si sposta quindi nel vicentino, per seguire in trincea le lotte operaie di un tessuto sociale profondamente industrializzato.
“La casa sulla Marteniga”, postumo alla sua scomparsa, ne traccia un profilo dettagliato. Tramite questa lettura si riesce a comprendere i tanti “perché” che circondando una figura estremamente coraggiosa, determinata e fuori dalle righe. Una figlia che, recuperando i suoi ricordi, ritrova il rapporto con una madre anziana. Tra di loro c’è Toni, figlio di Tina e omonimo in onore del fratello scomparso, che - giocando e crescendo a Santa Tecla - garantirà continuità a una storia che non può essere ridotta soltanto al Vajont, soltanto a una giornalista di sinistra, soltanto a una “donna scomoda”.
“Non mi sono mai sentita così vicina a mia madre come in questi giorni di confidenze. Lei lo avverte ed è grata del tempo che le dedico sapendo il mio daffare tra famiglia, professione, impegno politico. Prende sottogamba la mia professione, prima di tutto perché le sembra impossibile, non crede ancora che sia davvero riuscita a raggiungerla senza andare a scuola e prendere un diploma, come ha fatto Pina per la sua, e poi perché non rende: scrivo per un giornale militante. Perciò la concepisce quasi come un capriccio, una fra le tante cose strambe che mi sono messa in testa dopo la Resistenza, assieme alla politica che, secondo lei mi sottrae tempo alla famiglia. Ad ogni incontro mi fa la predica. Ma è proprio la politica che mi fa veramente vivere. Il mondo che sognavo da bambina, quand’ero a servire, mi si è aperto, esiste e io esisto col mondo. Ho un compagno che la pensa come me, lui con ancora qualche remora sulle donne perché viene da un ambiente diverso dal mio e da bambino non ha sofferto privazioni e umiliazioni. Ma ha fatto la guerra, prima sui fronti, poi in montagna ed è lì che ha mutato pensieri. Speravamo fosse meglio dopo la lotta, non più furbi e ruffiani, uno Stato nuovo da costruire, noi che lo avevamo voluto. Non è stato proprio così, ma qualcosa di nuovo c’è, l’abbiamo conquistato e vogliamo mantenerlo. Per questo ci diamo tanto da fare, perché resti aperto quell’importante varco della nostra storia che è costato sacrifici e sangue e che troppi vorrebbero chiudere e morta là. Poi anche i nostri figli faranno la nostra parte, si spera.”