Il 7 luglio del 1954 la spedizione italiana in Karakorum sta vivendo l’ultimo mese sulla seconda montagna più alta del pianeta. Non è stato un percorso semplice, lo sanno bene gli uomini che vivono ormai da settimane in condizioni estreme. In Italia, le vicende degli alpinisti e dell’enorme squadra - che punta alla vetta del K2 - sono gonfiate da una retorica che spinge molto sull’”eroicità” e sulla “conquista”. La gente mormora e attende la cronaca della stampa. I giornali sono ancora tiepidi quando vengono aperti nei tram di Roma, Milano, Torino. Uno sfarfallio di carta tra dita inumidite da saliva e calura estiva fa da sottofondo a carovane di persone dirette verso gli uffici. Finché in un mercoledì come tanti di mezza estate, il quotidiano l’”Unità” riporta una notizia. Una brutta notizia.
Pagina 6 è piuttosto ricca: “Fanfani intima a De Gasperi l’abbandono della DC”, si legge. A Parigi si registra il “tentato sequestro dei quadri di Picasso”, sempre in Francia si discute su un “Referendum per il riarmo tedesco”. Ma c’è dell’altro. “Un altro italiano vittima dell’Himalaya” - “Mario Puchoz muore di polmonite a 6.000 metri. Non si sa se il tentativo di scalare il K2 sarà proseguito”.
La storia di oggi comincia proprio da questo articolo di giornale, una delle poche fonti oggi a disposizione per cercare di ricostruire la figura di Mario Puchoz. L’Italia che si è appassionata alla spedizione in Karakorum deve fare i conti con la realtà: la morte colpisce a prescindere da tecnica, forza ed esperienza. Il 21 giugno la scomparsa di Puchoz ha scosso la squadra. La notizia fatica ad uscire dal Pakistan, sia per il meteo che per i mezzi in dotazione all’epoca. Ma quando arriva fa male.
Questa è una delle classiche storie in cui si trova ben poco. Spero che la ricerca e la scrittura di questo testo possano fornire uno spunto per chi volesse approfondire la vicenda. A tal proposito si segnala il libro di Saverio Mariani “La spedizione italiana al K2. Italia-Karakorum 1954” con cui siamo in contatto per un approfondimento. Non tanto come “impresa” ma riguardo tutti quegli aspetti secondari offuscati dalla conclusione della spedizione. Che sia stata positiva o meno lo lascio all’interpretazione personale. Perché per piantare delle bandiere si sono seppelliti dei corpi.
In quest'episodio non si vuole riassumere la spedizione italiana del 1954 al K2, né tantomeno celebrarne la “conquista”. Piuttosto si desidera far luce sulla prima vittima italiana di quei mesi, un lutto che mise a dura prova gli animi di alpinisti, ricercatori, portatori e di chiunque altro fosse stato allora coinvolto nella salita alla seconda montagna più alta del mondo. Si vuol provare a immedesimarsi nei familiari e negli affetti, totalmente disconnessi dai loro cari impegnati in Karakorum. Unica fonte d’informazione: lettere, pagine di carta direttamente dal campo base o da quelli alti. Ricordi e memorie su taccuini che contribuirono a creare la leggenda.
Si pensi al trasporto, tremendamente complesso, di queste informazioni. Stralci di carta scritti dai campi alti, da tende - per l’epoca - tecnologicamente avanzate, da mani avvolte nei sacchi a pelo, tute Moncler e caldi scarponi carrozzati con suole Vibram. Poi a piedi giù per i versanti del K2, a dorso dei muli o negli zaini dei portatori sui ghiacciai Austen e Baltoro verso Skardu, ultimo avamposto civilizzato raggiungibile con “mezzi meccanici”. Poi macchine sbilenche con motori rumorosi, percorrendo strade polverose e sconnesse. Infine in volo dal Pakistan, prima degli ultimi smistamenti.
Le quote estreme sono slegate dal mondo civilizzato.
Lassù le regole le detta il fato, l’essere umano può soltanto giocare d’astuzia nella speranza di azzeccare la mossa giusta. Spesso non basta, la strategia è surclassata dalle variabili dell’ambiente. Tutto è ingovernabile e proprio quel “tutto” fa gola. Stimola l’epopea eroica a cui l’alpinismo si concede e che - inutile nasconderlo perché siamo qui a scriverlo - affascina il pubblico.
Si provi a fare uno sforzo in più, a proiettarsi nelle case degli italiani nel secondo dopoguerra. La televisione è un oggetto di culto da pochi mesi. E’ d’uso radunarsi - quando si può - nei salotti o nelle cucine delle famiglie che hanno scucito bei danari per vivere il futuro. Alle undici del mattino del 3 gennaio 1954 - il medesimo anno della spedizione, guarda caso - la RAI annuncia l’inizio del servizio di trasmissioni televisive. Fu un cambiamento epocale, in grado di conquistare ogni fascia della popolazione. D’improvviso le stanze vennero arricchite da un soprammobile - piuttosto ingombrante - che divenne simbolo di uno “status quo”. Ci si poteva finalmente sentire “cittadini del mondo”, avendo l’opportunità di vederlo e viverlo dalla poltrona.
Sono tutte piccole sfumature di vita quotidiana del periodo che caratterizza questa storia e ne alimenta le gesta. Non tutte eroiche, anzi. La spedizione italiana al K2 del 1954 presenta luci e ombre. Di queste ultime, alcune sono rimaste tali. Fin dal principio per poi concretizzarsi nella relazione, e nelle future diatribe a proposito, del capo supremo in Karakorum: il Prof.re, geologo, geografo nonché esploratore Ardito Desio. Desio ha origini friulane, un carattere particolare, preparazione estrema, orgoglio ingombrante e un’impostazione decisamente rigida. Non ne verranno analizzati i dettagli ma l’ossessione per il K2 era cosa risaputa. Riteneva di avere ottime possibilità di condurre una squadra in cima per la prima volta nella storia. Non lo fermò nulla, nemmeno la morte. Con questo non si vuole annientare l’empatia di un uomo ma, piuttosto, provare a indagare il modo in cui questa scomparsa influenzò i suoi piani. Perché Desio, dopo un dovuto e sentito memoriale della squadra e di chiunque fosse presente al campo base, vuole continuare. Ne scaturirono attriti, proteste e prese di posizione. Alla fine però, in un modo o nell’altro, si continuò. Se già era stato sfiancante passare giorni e giorni in parete, la psiche dei presenti venne appesantita dalla morte di Puchoz. Quanti altri ne sarebbero potuti cadere?
Seguono alcuni passaggi della relazione finale pubblicata nella rivista del CAI nel dicembre del ‘54. Scrive Desio:
Il 14 giugno Compagnoni effettuò una ricognizione al 4° campo esaminando anche le condizioni della parete rocciosa che lo sovrasta e che deve essere superata per raggiungere la località del 5° campo. Il « Camino Bill » che solca la parete era tutto incrostato di ghiacci, ma non richiedeva l'impiego delle scale di corda che avevamo portato con noi, mentre appariva evidente l'utilità della teleferica leggera già usata come argano più in basso.
Due giorni dopo Compagnoni, Rey, Gallotti e Puchoz salirono nuovamente al 4°campo per portare su tende e rifornimenti. I due ultimi - Gallotti e Puchoz - scesero in giornata al 2° ove Puchoz incominciò ad accusare disturbi di gola, mentre gli altri fecero ritorno al campobase. In tutto questo periodo il tempo si era mantenuto avverso con vento, neve e temperatura rigida.
Nella notte fra il 20 e il 21 nevicò senza interruzione e le condizioni di salute di Puchoz al 2° campo si aggravarono improvvisamente con sintomi di polmonite. Malgrado l'assistenza del medico e la larga disponibilità di medicinali e di ossigeno, all'una del 21 giugno Puchoz inaspettatamente spirò.
Il giorno stesso tutti scesero al campo-base, mentre si scatenava una violenta bufera di neve. La scomparsa di un compagno, tanto più in una forma così imprevista, riempì il nostro animo di profonda tristezza. Per tre giorni consecutivi la bufera continuò ad infuriare bloccando tutti nelle tende. Soltanto il 26 si ebbe un lieve miglioramento che consentì il recupero della salma ed il suo trasporto al campo-base.
Il 27 salimmo tutti in corteo dal campo-base allo sperone di confluenza fra i ghiacciai Godwin Austen e Savoia ove demmo sepoltura a Puchoz presso il monumento dedicato l'anno prima dalla spedizione Houston alla memoria di Gilkey. Era necessario reagire all'abbattimento provocato dalla perdita di uno dei nostri e riprendere le operazioni sullo sperone Abruzzi. Qual era, infatti, la migliore forma di onoranze che si poteva tributare alla memoria di Puchoz se non la conquista della vetta per la quale si era immolato?
Erano altri tempi, è un dato di fatto, ma la domanda sorge spontanea: quanto e come è cambiato il ruolo - purtroppo spesso presente - della morte in montagna?
Aveva forse un significato diverso? Se Compagnoni e Lacedelli - al netto dei futuri attriti che emersero - non avessero mai raggiunto la vetta del K2, la morte di Mario Puchoz come sarebbe stata letta? E lui come sarebbe stato ricordato? Come un “eroe” immolatosi per la patria o come un uomo incapace di valutare i principi di una malattia amplificata dall’alta quota? E’ doveroso ricordare che le conoscenze dell’epoca sull'influenza delle quote estreme non erano paragonabili a quelle sviscerate successivamente, non si conoscevano nei dettagli gli effetti dell’altitudine sul corpo umano.
Mario Puchoz, da un certo punto di vista, divenne funzionale al K2. Se fosse stato un film sarebbe stata una morte da copione, un personaggio sacrificato per lo sviluppo della narrazione. Perché in fin dei conti contava solo la vittoria per una spedizione pionieristica per dimensioni, costi, studi, attrezzature e logistica.
Peccato che non fosse un film e non vi fosse nessuna sceneggiatura.
Il ricordo di Puchoz è rimasto incollato a quell’estate, una frazione di memoria che ne ha influenzato un’esistenza intera. Perché, ed è sempre giusto ricordarlo, Puchoz non era un personaggio da copertina.
Non era tra le “teste di serie” di visibilità in un gruppo che si doveva assestare e prendere le misure per capire chi comandava oltre a Desio. Il Prof.re era formalmente il capo-spedizione ma sul K2, a quelle altezze e in quegli ambienti, serviva altro. Era necessario un riferimento, anche silenzioso, a cui aggrapparsi. Una figura che potesse divenire speranza nel momento del bisogno. Mario Puchoz avrebbe potuto occupare questo ruolo, corazzato da un’invidiabile stabilità mentale. Lo si notò persino durante i suoi ultimi momenti. Aveva dalla sua un vissuto di fatica, una grande esperienza e tutte quelle caratteristiche di un capitano che affronta la tempesta. Un uomo che, per principio, si sarebbe messo in secondo piano. Certe cose andavano fatte e basta.
Puchoz avrebbe imbracciato il timone e condotto la barca in salvo, attraversando acque agitate. Poi - terminata la burrasca - si sarebbe seduto sotto coperta, lasciando il comando ad altri, rimanendo invisibile agli occhi di chi attende sulla banchina del porto, restando nell’ombra come “uno dei tanti”. Questa è l’immagine che matura indagando sul passato di Mario, per cui non si sono mai spese troppe parole.