Lo sbuffo del respiro appanna il mirino del cecchino. Non vede nulla.
Il soldato austro-ungarico deposita a terra l’arma che si appoggia sulle nevi del Passo Pramosio.
E’ appostato poco lontano dal sentiero principale da dove ha una buona visuale.
Non ci sono alberi ad ostacolarlo. Sfila la tracolla del fucile e si accovaccia a terra, invisibile ai cannocchiali degli italiani. Mangia un tozzo di pane raffermo da chissà quanti giorni; crosta e mollica hanno la stessa consistenza, dure come granito sotto i denti.
Ne approfitta per sfregarsi le mani dannatamente congelate da quelle maledette montagne; in giro non c’è nessuno, il silenzio di quella giornata è persino sospetto. Di solito volano pallottole ed esplodono granate ma le nubi di quella mattina d’inverno hanno concesso una tregua a quella guerra infame. I guanti non scaldano abbastanza e già alcuni giorni prima le dita hanno cominciato a cambiare colore, virando sul violaceo. Le piaghe del freddo hanno scorticato le nocche che si aprono e si chiudono senza mai cicatrizzarsi del tutto. Se dovesse apparire il bersaglio da abbattere, anche i cacciatori più esperti potrebbero mancarlo. Il vento soffia e penetra nella divisa; folate di neve entrano dal collo e corrono lungo la schiena. Non c’è niente a proteggerlo se non un masso e tante, tantissime preghiere.
La neve ha omologato tutto. Sembra un mare bianco e piatto che si distende verso il fondovalle; cominciano a intravedersi gli alberi, le tracce dei sentieri seguiti dagli italiani si fanno sempre più nitide. E’ ora di rimettersi in posizione, in fretta e in silenzio. L’M95 è pronto a far fuoco.
Dal mirino scruta la traccia che si arrampica al fronte; si sposta nervosamente, il fucile cigola, il cuore pulsa, il grilletto è ghiacciato. Poi avverte un suono; non lo riconosce, non capisce cosa sia. Dalla nebbia sbucano due sagome, curve dal carico che portano sulle spalle. Osserva con attenzione.
Cantano. Quelle due figure scure stanno cantando. Ma non sono uomini, sono donne. Sono portatrici che risalgono i sentieri. Ne aveva sentito parlare dai compagni in trincea, erano donne che svolgevano compiti da soldati per i soldati. L’esercito italiano poteva contare anche su di loro dopo aver trascinato in quota mariti, compagni, padri e compaesani. Erano rimaste sole a mantenere in vita paesi e contrade, erano rimaste a regalare fiducia a chi aveva tanti anni e speranze a chi ne aveva ancora troppo pochi, erano rimaste per prendere in mano quello che era stato abbandonato.
Ma non solo.
Le due donne riempiono il mirino, il cecchino ne segue l’avanzata. La linea di tiro è sgombra, sono due bersagli piuttosto facili per un tiratore esperto. Uno di quelli che non sprecano inutilmente pallottole, uno di quelli abituati a tirar giù ciò che si muove senza batter ciglio, uno di quelli abituati a cacciare.
Le portatrici si fermano, le gerle cariche di munizioni pesano come macigni. Chissà da quanto stanno marciando e quante volte sono transitate per i crinali. Giusto il tempo di prendere fiato prima di continuare a salire. Sanno di essere in pericolo sulle montagne, ma non sanno dove poter essere al sicuro. Sono abituate a sentir fischiare accanto a loro i colpi degli eserciti che scheggiano gli alberi e scassano il terreno.
Le schiene faticano a raddrizzarsi, si sistemano le vesti e parlano. Gesticolano indicando la linea del fronte che ancora non si vede. Poco prima c’è il lago Avostanis, ultimo specchio d’acqua prima delle trincee a est del monte Freikofel. Lassù la guerra ribolle anche al gelo.
Il mirino è fermo su una delle due. Il cecchino spara. Il fragore rompe il silenzio e in una frazione di secondo la donna è a terra, l’altra urla e cerca aiuto. Gli alpini italiani hanno sentito tutto, escono dalle loro postazioni e corrono verso il basso sbucando dalle nuvole.
Maria Plozner Mentil è a terra.
Il fronte di guerra al confine tra Carnia e Carinzia ha rappresentato uno dei grandi paradossi del primo conflitto mondiale. Le comunità italiane e austriache avevano convissuto da sempre, collegate tra loro da un valico alpino fondamentale sia per le economie locali che per lo sviluppo del conflitto: il Passo Monte Croce Carnico.
Ma con le nazioni in guerra e le convocazioni al fronte della popolazione locale, le trincee nemiche vennero popolate da moltissimi soldati amici fino al giorno prima.
A ridosso del passo in molti conobbero la violenza della morte e un profondo senso di colpa nel crivellare l’esercito opposto. A difendere il lato italiano della Valle del But si alzano le creste rocciose che collegano il Pal Grande, il Pal Piccolo e il Freikofel.
E proprio su quest’ultimo emersero episodi singolari capaci di “porre fine” - per alcuni momenti - a una delle più grandi follie innescate dall’essere umano.
Follie che però fanno sempre ritorno, detonando a fasi alterne, illudendo che - in fin dei conti - dalla fine di una guerra si impari qualcosa. Invece no, il mattatoio che si consumò tra quelle cime insegnò che - a rimetterci - furono i ceti sociali umili e poveri.
Costretti ad essere assassinati e a diventare assassini.
Ma alcuni si ribellarono in silenzio ai comandi degli alti ranghi degli eserciti.
Per passare dalla Carnia alla Carinzia, il passo Monte Croce Carnico aveva rappresentato un interessante crocevia per chi voleva guadagnarsi da mangiare al di là dei confini.
C’era chi lo valicava per passare in Austria, scendendo per ripidi versanti verso i prati di Mauthen. C’era invece chi lo percorreva in salita nel verso opposto, raggiungendo la severità di Timau: ultimo centro abitato ai piedi delle montagne, frazione di Paluzza, per raggiungere Tolmezzo.
Insomma, i rapporti tra italiani e austriaci erano ben consolidati. Vicini di casa che intersecavano le loro esistenze da generazioni e che riconobbero questa fratellanza anche nelle ore più buie del conflitto.
Tra le barricate avverse si riconoscevano volti amici, persone incrociate a Mauthen, magari colleghi di lavoro, gente di cui si conoscevano mogli, figli, figlie, famiglie. Come si faceva a vederli nemici, come si faceva a uccidere e, soprattutto, a uccidere proprio loro?
Alcuni si misero d’accordo che - nonostante la guerra - non si sarebbero fatti la guerra.
Avrebbero sparato contro i foresti o avrebbero scaricato pallottole in aria, consapevoli del pericolo di essere a loro volta fucilati per infedeltà al comando e alla patria.
Ma in un contesto del genere, il rischio di lasciarci la pelle in qualsiasi momento lo si era già accettato intrinsecamente da tempo.
Condivisero gavette e gavettini, condivisero cibo e bevande in cambio di tabacco e sigarette. Gli italiani avevano infatti a disposizione un rancio, un pasto giornaliero, abbondante per sopportare la rigidità di un clima che non risparmiava nemmeno a valle.
750 grammi di pane, 450 grammi di carne e qualche volta un quarto di vino.
Le razioni dell’esercito tricolore erano abbondanti, capaci di sfamare più stomaci, rappresentando un ultimo elemento di congiunzione tra ciò che la storia aveva creato per secoli e ciò che la guerra aveva raso al suolo in una giornata.
Ma queste furono eccezioni, la grande guerra spazzò via moltissime vite dei moltissimi uomini obbligati a stazionare nelle trincee in altura. In questi contesti, con i paesi italiani immediatamente al di sotto delle montagne, non fu soltanto la popolazione maschile a partecipare attivamente al conflitto.
Là in alto i battaglioni Arvenis, Tolmezzo e Tagliamento hanno conquistato crinali, scavato trincee, allestito baracche e ricoveri. Hanno attrezzato il fronte con l’artiglieria e cominciato una vita diversa. C’erano 12.000 soldati circa sul fronte di Timau, dal Passo Volaia al Passo Pramosio per una lunghezza di circa 6 chilometri. Fino al maggio del 1915 foreste, alpeggi e rocce erano terre inospitali.
E proprio in questi luoghi venne trasportata la quotidianità.
Venne caricata negli zaini dei soldati intenti a salire al fronte.
Non c’erano teleferiche, non c’erano strade, non c’era nulla se non i sentieri di chi andava a caccia, a portare in quota il bestiame, a fare la legna o a sfalciare gli alpeggi per ricavarne foraggio.
Questa assenza di infrastrutture, complice l'asprezza delle montagne carniche, comportò un enorme dispendio di uomini nelle fasi iniziali del conflitto. Andavano su e giù in continuazione per alimentare la vita di chi rimaneva in trincea pronto a far fuoco sull’esercito avverso. Girare per sentieri con zaini carichi di vettovaglie, munizioni, vestiti, medicinali, materiali, armi e attrezzature non era semplice. Né per chi era in marcia né tantomeno per la compattezza dell’esercito che correva il rischio di rimanere scoperto e maggiormente vulnerabile.
Settimana dopo settimana la situazione si complicò, la guerra che si pensava sarebbe durata qualche giorno non accennava a smettere. Anzi, era una realtà sempre più concreta, cruda e catalizzatrice di risorse. Per ogni combattente vennero stimati e trasportati circa 3 kg di rifornimenti giornalieri. Una quantità mostruosamente grande, un fardello che avrebbe deciso le sorti della guerra. Senza queste fatiche la sconfitta sarebbe stato l’unico epilogo possibile.
Ecco perché ad un certo punto, per salire laddove nemmeno i muli riuscivano ad arrivare, venne proposta una soluzione che avrebbe garantito anche il controllo dei soggetti con visioni politiche avverse: “fuori i borghesi dai 12 anni in sù”. Erano perlopiù donne, le uniche rimaste, forgiate a faticare sui sentieri fin dai 10 anni d’età (se non ancor prima). Davano una mano in casa o forse è più corretto affermare che misero l’intera esistenza a servizio di genitori, fratelli e sorelle.
Erano state abituate a giocare poco e lavorare molto di più, a raggiungere quote attorno ai 2.000 metri per sfalciare gli alpeggi e portare a valle il fieno. Si caricavano le gerle, partivano all’alba e tornavano al calar della notte. Su e giù per giorni e giorni; un’attività essenziale per l’alimentazione del bestiame che con lo scoppio della guerra divenne un valore aggiunto per l’esercito italiano.
Pertanto, le donne dei paesi a valle potevano essere una soluzione ad alto impatto sia per i battaglioni - che non avrebbero perso uomini per il trasporto dei rifornimenti - che per l’animo degli stessi soldati. Educate e rodate alla fatica, dei carri armati in vestito che non si sarebbero di certo tirate indietro alla richiesta d’aiuto dei battaglioni. Lassù infatti c’erano giovani, figli, mariti, compagni, fidanzati, padri, c’era una parte delle loro famiglie in difficoltà.
Le donne, come previsto, risposero presenti.
“Andiamo che altrimenti quei poveretti muoiono di fame”
Cominciò in questo modo la storia delle portatrici carniche. Una storia importante, caduta nel dimenticatoio, assieme a quella di altre donne: come le cadorine ad esempio, impiegate allo stesso modo a supporto dell’attività bellica. A rappresentare questo movimento femminile sia sul fronte Carnico che sui restanti fronti alpini: Maria Plozner Mentil.
Dai 12 ai 60 anni.
Le donne appartenenti a questa fascia anagrafica si presentarono ai centri nevralgici stabiliti e occupati dai comandi militari. Una moltitudine stimata in circa 2.000 anime, consce dei pericolo a cui sarebbero andate incontro risalendo le montagne di casa. Vennero dotate di braccialetti rossi e di una paga di 1,50 lire. Diventare portatrice era anche un modo per mettere in tavola qualcosa negli anni della miseria e della fame, ulteriori minacce insieme alla proliferazione di malattie capaci di mettere fine in un batter d’occhio a interi nuclei familiari.
Sulle spalle non si caricavano soltanto 30-35-40 kg di materiali ma anche il loro futuro e quello della prole che, con gli uomini in balia del conflitto, era ormai intrinsecamente correlato agli sviluppi della guerra.
Le marce delle portatrici carniche erano estremamente faticose, sia per lo sviluppo altimetrico che per la quantità di peso che trasportavano lungo le tratte verso le trincee.
Dai 600 ai 1.400 metri di dislivello, con decine di chili a pesare sulle cinghie delle gerle che segnavano e scavano la pelle delle spalle. Partivano alle prime luci dell’alba quando fuori era piuttosto buio e i focolari non si erano ancora esauriti del tutto.
Le braci ancora incandescenti erano l’unica consolazione della nuova giornata sul fronte di Timau, mentre si imbottivano le vesti per sopportare il freddo. Se d’estate il clima era fresco, le mattine delle stagioni rigide erano glaciali.
Facevano piano, in punta di piedi per non svegliare chi riposava.
Il cigolio del portone scandiva ufficialmente l’inizio di un giorno nuovo; via verso il centro del paese e poi verso i depositi. Le gerle vuote venivano riempite di sabbia, sassi e qualsiasi altro materiale utile per costruire strade che non c’erano, che erano state disegnate e poi tracciate dal Genio Civile per garantire maggior rapidità negli spostamenti sui versanti delle montagne. Maria Plozner Mentil aveva lasciato a casa 4 figli, la più grande si chiamava Dorina: nel 1916 aveva 10 anni. Il più piccolo era Gildo, nato da poco più di 6 mesi e già chiamato a diventare grande ancor prima di prenderne coscienza.
Perché il 15 febbraio del 1916 la vita dell’intera famiglia stava per cambiare.
Era una vita di stenti e intensi sacrifici.
Ma era anche una vita a cui veniva richiesto uno sforzo in più: nelle gerle non c’erano soltanto vettovaglie, munizioni, armi e materiali. C’era anche la necessità di consolare, di portare una buona parola a chi era abbarbicato in una vera e propria ghiacciaia.
Salivano, scaricavano e riferivano della vita a valle. Li scaldavano con i racconti del paese che - mai come allora - era un’entità lontana, lontanissima.
I giornali, anche nei pochissimi casi in cui si fosse riusciti a farli arrivare in cima, diventavano carta per alimentare i fuochi. In pochi erano in grado di leggere e, complice un analfabetismo dilagante, i soldati prendevano per buono ciò che gli veniva raccontato dalle signore dei paesi.
Non avevano altro.
Davanti a loro morte.
Vicino a loro, altra morte e sofferenze.
Se non era una pallottola a ferirli, ci pensavano le granate.
Se non erano armi, era il freddo, erano le infezioni, erano batteri, era la fame.
In quelle condizioni poi l’igiene precario indusse ulteriori nemici: moltitudini di pidocchi infestavano le baracche e i vestiti dei soldati, costretti a convivere in condizioni che definire precarie è un eufemismo. I pidocchi del cuoio capelluto e del corpo infestavano le trincee, sintomo di un sovraffollamento estremo capace di logorare la psiche dei militari.
Dopo aver mangiato il rancio insieme alle truppe le portatrici scendevano a valle.
Non prima di aver riempito nuovamente le gerle.
Non erano vuote nemmeno sulla strada del ritorno, quando le luci del sole abbandonavano i crinali.
Erano gruppi di 10-15 donne che in salita cantavano per farsi coraggio, pregavano per sentirsi maggiormente protette. Per impiegare il tempo nel miglior modo possibile, oltre a canzoni e rosari, lavoravano a maglia.
Preparavano indumenti utili per loro, per gli uomini, per figlie e figli rimasti a casa. Non era raro che a volte dovessero interrompere il loro lavoro per caricarsi sulle spalle i cadaveri di chi non ce l’aveva fatta, colpito da qualcuno o sfinito da quella vita.
Se necessario trasportavano a valle e poi a Paluzza persino i feriti. Altrimenti si caricavano nelle gerle i vestiti sporchi, luridi di pidocchi per lavarli e trasportarli di nuovo sù nei viaggi successivi, oltre a materiali di scarto, attrezzature e qualsiasi altra cosa avesse bisogno di manutenzione o fosse da buttare.
Non erano dotate di calzature idonee e qualche volta andavano sù così, semplicemente a piedi nudi.
Maria Plozner Mentil da Timau, classe 1884 aveva accettato di essere una portatrice. Prestò servizio con orgoglio e fierezza mentre suo marito era stato spedito sul Carso; nel frattempo il paese si era trasformato nell'ultimo avamposto prima del fronte.
Il 15 febbraio del 1916, in pieno inverno e con il freddo di inizio XX secolo, due donne cominciarono a risalire verso Passo Pramosio. Una di queste era Maria Plozner Mentil, sempre reperibile insieme alle sue compagne a qualsiasi ora del giorno e della notte.
La partenza era stata fissata molto presto.
La aspettavano diverse ore di cammino, ci era stata abituata fin da piccola.
Passarono in mezzo a nubi umide e glaciali e ad ogni respiro - esasperato dai canti e dalla fatica - l’aria congelava i polmoni. In località passo Pramosio si fermarono per qualche minuto di riposo, senza accorgersi di essere finite nel mirino di un cecchino austro-ungarico.
Il target è Maria.
Si avverte l’eco del colpo quando è già a terra.
Il soldato si nasconde mentre la portatrice accanto a Maria urla, chiede aiuto.
Arrivano gli alpini. Tutti corrono verso il basso, cercando l’impossibile pur di salvare la Plozner Mentil. L’ospedale militare si trova a Paluzza, giù nella valle, più giù di Timau.
Maria ci arriva ma non sopravvive. E’ lei la prima - e unica - portatrice carnica vittima della grande guerra; altre tre donne vennero colpite durante il conflitto ma per nessuna di loro era giunta l’ora.
Un singolo colpo di cecchino comportò 4 orfani che dalla patria non ottennero nulla.
La pensione era destinata soltanto ai soldati e non alle donne vittime della guerra, nemmeno in qualità di portatrici. Ma nonostante tutto i funerali di Maria Plozner Mentil vennero celebrati con gli onori militari.
“Nell’inverno continuarono le donne a portar viveri e munizioni fino agli avamposti, in tutte le ore notturne sotto ogni inclemenza di tempo, sotto fitta pioggia di proiettili nemici; perché le salmerie non potevano avanza re causa la molta neve caduta e le batterie erano ancora sprovviste di teleferica. Ed altrettanto facevano le donne ed i ragazzi del vicino Cleulis per le batterie del Monte Terzo (chiamato dai soldati austriaci il diavolo infuocato) e del Monte Faas e Lavareit. Non era sperabile che tanto aiuto portato da tante donne e da tanti ragazzi, potesse continuare a lungo senza che nessuno avesse a restare vittima dei proiettili nemici “
Passarono più di 50 anni quando in Senato venne proposto dal Senatore Majer il riconoscimento delle portatrici carniche; praticamente nessuno era a conoscenza delle attività al fronte di queste donne. Per le portatrici carniche che nel 1968 erano ancora in vita, venne conferita l'onorificenza di Cavalierato grazie al disegno di legge proposto dal senatore Maier che prevedeva l’estensione della legge 18 marzo 1968, n.263.
In poche parole sarebbero state assegnate medaglie d’oro e un assegno vitalizio annuo non reversibile di 60.000 lire. Quest'ultimo modificato con la legge 4 novembre 1979, n.563 a decorrere dal 1° gennaio 1979, è elevato da L. 60.000 a L. 120.000 e a decorrere dal 1° gennaio 1980 a L. 150.000.
A Maria Plozner Mentil venne intitolata una caserma militare, l’unica in Italia dedicata a una donna. Poi nel 1997 il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, di propria iniziativa, assegnò la medaglia d’oro al valor militare all’unica portatrice caduta sul campo di battaglia. Lo fece consegnando il riconoscimento alla figlia di Maria, Dorina. Aveva 91 anni. La sua storia ritornò a far parlare di queste figure e le venne dedicato un monumento a Timau affinché chiunque possa contribuire a tramandare la storia delle portatrici e delle loro attività a sostegno della patria durante la grande guerra.