Questa è la storia della prima donna in cima all'Everest ma è anche la storia della prima donna a completare il progetto Seven Summits: il raggiungimento delle massime quote nei sette continenti, compresa l’Antartide.
Questa però è anche la storia di una battaglia. Una battaglia al sistema patriarcale di terre lontane, una battaglia a un velo di muffa che avanza in silenzio, infettando chiunque senza preoccuparsi del genere. Perché nel momento in cui certe parole, certe abitudini, certi meccanismi hanno il potere di stemperare sogni, affossare emozioni e sottrarre libertà, il problema sociale si manifesta in tutta la sua violenza.
"Questo non è un posto per donne".
Uno stereotipo monolitico che correrà sullo stesso binario di Junko Ishibashi.
Questa è una storia attuale, concreta e fin troppo moderna.
Le alte quote, così come le culture orientali, non risultano immuni a queste dinamiche: i ruoli sono categorizzati e - allo stesso tempo - compressi in una matassa di etichette che omologano tutto.
All’uomo è imposta la virilità, proibendo in silenzio ogni forma di empatia ed emozione.
Alla donna è suggerito invece l’annullamento, in favore di chi detiene troni e scettri.
C’è chi si adatta, chi ne soffre e chi si ribella.
In entrambi i casi.
Junko Ishibashi, in seguito Junko Tabei, ha probabilmente attraversato ognuna di queste fasi: un'iniziale conformazione al volere sociale, per poi scoprirsi diversa.
Sperimenta una profonda crisi depressiva che la spinge a reagire. Vuole essere la migliore attrice protagonista di sé stessa; si affida pertanto a quello di cui non riesce a fare a meno: le montagne. Nel Giappone degli anni ‘60 la decisione di dedicarsi all’alpinismo, di credere in una passione andando controcorrente rispetto alle impostazioni nipponiche, non dev'essere stato semplice.
Eppure era il suo sogno.
Gli ambienti montani - in un primo momento - non le riservarono il giusto rispetto. Erano in pochi a credere in lei, ma non era questo il punto. Era una donna. Ciononostante, determinazione e resilienza le hanno concesso un posto nella leggenda, nella storia all'altissima quota. Fu la dimostrazione in carne e ossa che, non solo le donne ce la potevano fare, ma che non avevano nulla da invidiare ai monopolisti dell'altimetria che gratta il cielo: prettamente di genere maschile.
In questa storia, che comincia dai sobborghi di Fukushima, non si parla di mera montagna, ma di come la montagna sia stata un grimaldello in grado di scrostare una patina di stereotipi e pregiudizi. Junko è il faro di un'immensa rivoluzione. Proprio lei, la minuta giapponese, la prima donna a raggiungere quota 8.848 metri sopra il livello del mare: la cima dell'Everest. Un megafono umano, un modello femminile, una grande donna.
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Junko è in un mondo diverso, sferzato dal vento che risale come una biscia su per obelischi di pietra, fino al confine delle guglie più alte. Lassù dove i vortici d’aria lanciano in alto la neve, la spingono sopra i baratri, lasciandola sospesa come un’onda che non riesce mai a raggiungere la battigia.
Lei e le sue compagne sono arrivate da poco al campo base dell’Everest. Sono in quattordici, cariche di materiali, seguite da uno sciame di portatori e più di venti sherpa a loro supporto sulle pareti del gigante. Il brusio e il vociare della spedizione sono quelli delle grandi occasioni. Quattordici donne con un unico obiettivo, sempre che sia possibile: la vetta. Sarebbe la prima volta assoluta per una donna. Ma non è facile, proprio per nulla. Lassù tutto cambia, basta un attimo, una scelta sbagliata, un passo falso, una considerazione, un pensiero e si è fuori dai giochi.
Se si commette un errore, se ci si lascia soggiogare dalla fatica snervante e dall’aria rarefatta mano a mano che si procede, la catena montuosa più alta del mondo può diventare una lotta per la sopravvivenza. Una lotta cinica, non perché ci sia un cattivo, ma perché l’essere umano non è stato costruito e concepito per viverci. L'Himalaya è inospitale per definizione, un posto in cui - in quegli anni - ci si reca per grandi imprese. È qui che si forgiano gli eroi, i nuovi eroi del XX secolo. Fino al 1975 l’Everest ha accolto in vetta poche spedizioni; il sogno più alto del mondo è difficile da raggiungere sia fisicamente che burocraticamente. Serve un permesso, proprio quello che le giapponesi hanno richiesto diversi anni prima. Junko e compagne hanno dovuto attendere tre anni, più di 1.095 giorni prima di un “sì”, prima del via libera definitivo: era il 1972. Nel frattempo, proprio in quel periodo, Junko Ishibashi - da qualche anno Junko Tabei - è diventata madre del suo primo figlio, Noriko. Pensa a lui, si distrae per qualche frazione di secondo, poi l’aria del Khumbu la risveglia.
Il freddo le sottrae i pensieri, glieli ruba e glieli scaraventa via. Persi chissà dove, poi prosegue. Gira attorno alla tenda per scaldarsi e per controllare che la struttura sia stabile e in tensione. Apre la zip e ci si ficca dentro per cercare la frontale. Si toglie il cappello e scopre un caschetto di capelli neri, assesta la torcia in posizione e poi si ricopre la testa con il cappello. Ora, dal centro della sua fronte, sbuca una lucina che si riflette sui colori accesi delle tende; pensa a quanto sarà doloroso pigiare il pulsante d’accensione a 8.000 metri, per l’assalto alla vetta nelle prime ore del giorno, quando il freddo sarà estremo.
Ovunque si giri tutto è gigantesco, tutto pare inaccessibile, tutto sembra impossibile. Eppure l’apparenza non definisce la realtà, anzi. L’apparenza è fatta per essere smentita.
Il campo base è fissato a 5.350 metri di quota sul ghiacciaio del Khumbu.
Lo hanno raggiunto dopo alcuni giorni di cammino, poi hanno montato le postazioni per le settimane successive. L’Everest ce l’hanno di fronte, sembra fin troppo a portata di mano. Ma le prospettive ingannano.
Al calar della sera si affidano alla preghiera, tutta la spedizione è unita nel tardo pomeriggio a invocare la protezione delle divinità della montagna. Le frontali sono gli unici punti di riferimento quando la notte corre verso il ghiacciaio del Khumbu, prima di inghiottire tutto per lunghe ore. Sono momenti intensi, nei quali anche chi non crede è invogliato a crederci; c’è chi lancia del riso, chi alza al cielo polveri, chi canta, chi mormora qualcosa che Junko non riesce a capire.
Ma non importa, in quel momento tutto è lecito affinché la montagna sia caritatevole nei loro confronti. Junko prende qualche altra manciata di riso e osserva le nevi tre chilometri più in alto; poi lo lancia verso la montagna.
Osserva anche le cascate di ghiaccio del Khumbu, dovranno passare di lì. Ripete il gesto, spargendo i chicchi in quella direzione. Tutto quello che potevano fare lo hanno fatto.
Si erano preparate duramente, si erano approcciate con rispetto alla montagna più alta del mondo e ora toccava a loro essere protagoniste sulle sue pareti.
La preoccupazione più grande, nonché l’augurio per una spedizione di successo, consiste nel mantenere inalterato il numero di persone sia in salita che in discesa.
Non serve nulla di più. Poi il buio travolge il campo base dell’Everest e i sacchi a pelo cominciano a riempirsi da corpi affamati di caldo.
È l’ultima notte prima del grande giorno, il giorno della partenza verso l’alto.
Miharu è un contesto diverso rispetto alle altre città nipponiche, specialmente dalle grandi metropoli come Tokyo. Miharu nel 1939 è una zona a misura d’essere umano, circondata dalla natura, a tratti rurale e quindi soggetta a dinamiche circoscritte e autoctone.
Crescere in un contesto del genere permette a Junko di assaporare la natura, di entrarci in contatto a tal punto da rimanerne profondamente affascinata.
Il colpo di grazia, se così si può definire, avviene però nel periodo di scuola elementare. Junko è avviata a quel compleanno che riempie due mani e partecipa a una gita con un insegnante sul monte Nasu-Dake.
E’ ancora una bambina, ma la vetta di quella giornata le fà scattare qualcosa.
Descrive quel momento come una sorta di innamoramento, come un qualcosa che non aveva mai visto; all’improvviso, senza rendersene conto, si ritrova “più in alto di tutte quelle montagne che circondavano casa sua”. E’ una scintilla che accende un fuoco. Bastava camminare, a qualsiasi ritmo, per raggiungere posti sempre nuovi che fino ad allora non si erano mai visti o, magari, si erano potuti ammirare soltanto nei libri di scuola.
Eppure era tutto lì, il mondo verticale era un universo da scoprire.
Sono queste le fondamenta granitiche su cui poggia la passione di Junko; una passione che, negli anni adolescenziali, viene un po’ lasciata in secondo piano per poi deflagrare, in tutta la sua potenza, negli anni di alta formazione universitaria.
Junko prosegue i suoi studi con ottimi risultati, portando a termine la scuola superiore per arrivare al più classico dei bivi. La fine della scuola, per una donna dell’epoca, significava stravolgere la propria esistenza. Si poteva iniziare a trovare un impiego oppure, se non in concomitanza, avviare una famiglia assieme al proprio compagno.
Era piuttosto impensabile vivere di altro, i binari della tradizione erano ben definiti e volenti o meno, prima o poi, avrebbero incrociato l’esistenza di tutte e tutti. Ma Junko era diversa e sceglie di proseguire gli studi; si iscrive all'università femminile di Tokyo, spinta verso questo percorso dal padre che si rivelerà una pedina fondamentale in uno dei momenti bui della figlia.
Il passaggio dalla prefettura di Fukushima a Tokyo le sbatte addosso una realtà completamente diversa a quella che l’aveva accompagnata e preservata. Tokyo, rispetto a Miharu, è una giungla urbana. Junko è proiettata in una dimensione che la porta ad annullarsi; lavora sodo, fin troppo. Studia e basta, non c’è spazio per altro. La città è una gigantesca gabbia, una ragnatela di dinamiche che la immobilizzano in sé stessa. E’ schiacciata e oppressa dallo stress ma anche da un male dell’anima piuttosto comune: Junko soffre di depressione.
Si rende conto di quanto sia devastante quella condizione che le sottrae, in tutto e per tutto, la libertà. A volte basta un attimo di distrazione per sprofondare, altre volte si va giù lo stesso. La mente è un gomitolo aggrovigliato, se si tira un’estremità non si ha la certezza di cosa accada dentro la matassa. Il filo magari sembra scorrere, sembra uscire, sembra cosa fatta. E invece, all’improvviso, si arresta; perché dentro, nel profondo di quel gomitolo dove la luce non filtra, si forma un nodo. È più si tira, più si incastra. Non sarà semplice trovare quel nodo e scioglierlo. Praticamente impossibile farlo in solitaria, rendendo - di nuovo - tutto lineare, senza attriti, senza intoppi, alcune persone direbbero: “normale”.
Poco alla volta Junko sprofonda sempre più giù, raschia il fondo in balia dei suoi demoni; dall’esterno non è scontato percepire questo disagio, non è semplice capire quanti nodi ci siano in quel gomitolo minuto e grintoso che, un po’ alla volta, si spegne. Ma il padre percepisce qualcosa di diverso nella figlia. Lei è sempre stata piccolina ma con una forza impressionante, non si è mai data per vinta; se non fosse stato per le scarse possibilità economiche della famiglia Ishibashi, Junko avrebbe continuato a coltivare la passione per le montagne che ora sembra lontana anni luce.
Quella passione che la faceva tornare a casa con il sorriso, fin da bambina.
Ecco alcuni dei suoi ricordi:
“Dalla cima del Nasu-Dake sono stata catturata da un panorama che, fino ad allora, non avevo mai visto. Era tutto così diverso, per la prima volta mi sentivo più in alto delle montagne di casa. Questo fatto mi ha trasmesso una consapevolezza ben precisa: il mondo era pieno di cose che avrei dovuto scoprire”
Il padre prova allora un’ultima mossa, affrontando di petto la depressione della figlia; le suggerisce di provare a fermarsi, di prendere una pausa. Se la vita di Junko fosse stata improvvisamente trasportata su una scacchiera, il padre avrebbe fatto scacco matto.
Perché da quel preciso istante, qualcosa cambia. Una scintilla di ricordi, memorie, dolori, sensazioni, fatiche e gioie ritorna a brillare negli occhi della figlia.
Un periodo sabbatico, un evento eccezionale in molte culture ma probabilmente estremo in quella nipponica, le avrebbe fatto bene a prescindere. Le avrebbe fatto ancor meglio se avesse rispolverato quella passione per il mondo verticale. Non per dedicarci qualche giornata, sporadicamente, ma per vivere in funzione di ciò che la faceva sentire viva. Il ritorno alla natura sarebbe stata “la medicina” perfetta e Junko non se lo fece ripetere.
Camminare, arrampicare, immergersi nella natura per giornate intere, cominciano ad alleviarla dalle illusioni incantatrici della metropoli.
Le consentono di fare ordine, di comprendere la depressione e di conviverci. Junko incolla molti di quei cocci in cui si era frantumata, sostanzialmente nasce una seconda volta. Si corazza, spinta da una passione travolgente che ad un certo punto diventa qualcosa in più: diventa uno stile di vita.
Si iscrive quindi ad un club di alpinismo, ma con lei non parte nessuno. Junko è da sola; è una donna e questo non gioca a suo vantaggio. Ma c'è anche da dire che i monti accanto a Tokyo non rappresentano grandi difficoltà; Junko non ha compagnia ma finalmente è in pace con il mondo, pronta a ricominciare la scuola con un obiettivo: il fine settimana successivo. Non che vivere in funzione dei giorni di riposo abbia tanto senso, ma in quel momento basta solo l'idea di fare qualcosa che le piaccia sul serio, per spingerla a non arrendersi.
La scoperta di posti nuovi, mai visti prima, è il motore che proietta Junko in un'altra dimensione. Una dimensione in cui la passione si intreccia con la vita; montagna e quotidianità si mischiano, agitate dalla voglia di vivere, formando una miscela omogenea.
È partita da 0 e vuole arrivare a 10, ma per farlo bisogna avere pazienza, una virtù che fa parte della sfera emotiva di Junko. Attende il momento giusto per il salto di qualità; si iscrive a un club alpino per sole donne, imparando la tecnica di progressione in cordata, cosa fare su roccia e come comportarsi con ghiaccio e neve.
Comincia a fare sul serio.
Dal canto suo, è una delle pochissime rappresentanti femminili impegnate in alpinismo di nuova concezione, d'avanguardia.
"Questo non è un posto per donne"
Spesso veniva apostrofata così, appena arrivava alla base delle pareti per allenarsi. Le falesie, in quegli anni, erano un covo elitario: pochi componenti, maschi, tutti selezionati dalla difficoltà della roccia.
Junko non concepisce l'idea di passare una giornata trascurando la sua passione, rilassandosi sul divano. Lei vuole soltanto fare ciò che le piace in quel momento, è completamente assuefatta dalle sensazioni che vive in quota.
Una dinamica comune a chi si approccia alla roccia, poi si tende a mollare la presa. Ecco, Junko non solo non la lascerà mai ma salirà ancora più in alto. Soffre ma se ne infischia del giudizio maschile, molti arrampicatori non accettano una novità del genere: le donne devono rimanere a casa, devono fare altro, arrampicare accanto a loro non era assolutamente concepibile. Perlomeno, fino ad allora.
Nel 1964 Junko incontra il suo futuro marito: Masanobu Tabei. E’ un momento fondamentale, un bivio importante per le vite di entrambi. I due si piacciono fin da subito, non c'è bisogno di dirsi granché. Il primo appuntamento lo passano legati insieme, arrampicando. Due anni più tardi si sposano, mentre nel 1972 nasce il loro primo figlio: Noriko.
Nella loro relazione c’è però qualcosa in più, qualcosa di raro, qualcosa che va ben oltre i ruoli di genere: Masanobu e Junko disintegrano ogni sorta di classificazione sociale.
Lui e lei, lei e lui, hanno lo stesso peso.
Masanobu lascia respirare la moglie, le lascia spazio per inseguire sogni e obiettivi, per farla diventare una scalatrice. Non esiste possesso, non esiste emarginazione, non esiste nessuna di queste dinamiche. Per motivi differenti, marito e moglie sono due perle rare.
Lui è diverso, all'avanguardia, moderno e, per il Giappone dell'epoca, futurista. La figura maschile raramente metteva in prima fila gli interessi della compagna. Figurarsi quelli di Junko, lontani da ogni tipo di immaginazione.
Una madre che avrebbe dovuto viaggiare in giro per il mondo, rischiando la vita e rimanendo lontana dai figli per lunghi periodi, si sarebbe schiantata - a tutta velocità - contro pregiudizi, malelingue e un brusio incessante di critiche.
Masanobu però non la limitò mai. In quell’epoca, la famiglia Tabei viaggiava su binari diversi che ancora oggi hanno un profondo valore sociale. Un valore esemplare e applicabile in ogni angolo del mondo, dove la muffa patriarcale non è stata ancora estirpata.
Il 1969 è un altro anno importantissimo per Junko.
Fonda un club alpinistico tutto al femminile e, dopo aver esplorato le montagne giapponesi con il marito, viene contattata da Yoshiko Wakayama: una scalatrice piuttosto esperta e rodata. Yoshiko aveva partecipato alla prima spedizione femminile sulla parete Nord del Cervino; è una figura di rilievo che, in quei mesi, si è messa alla ricerca di donne alpiniste per una spedizione in Himalaya, all'Annapurna III (7.555 metri). Era una sorta di test per puntare a vette sempre più alte, quote ritenute non idonee alla sopportazione femminile. Non avrebbe potuto ricevere un invito migliore, Junko accetta e la spedizione riesce nel suo intento.
"La neve sulla cima era dura come la roccia. Ogni movimento era lentissimo. Ho posato lo zaino e mi sono tolta i sopraguanti. Il vento era così forte e freddo che mi pungeva le mani come aghi. Tirando fuori le bandiere da un sacchetto di plastica, le abbiamo legate ai manici delle nostre piccozze, quella nepalese di Girmi, quella giapponese e la bandiera della squadra di Hirakawa. "Finalmente siamo qui. È fatta." La temperatura era di -16°C alle 14:45”
Nel 1970 alzano la posta in palio, vogliono la montagna più alta al mondo su cui nessuna donna è ancora mai salita. Una cima selvaggia, brutale, desolata e ancora lontana dai flussi alpinistici moderni. L’Everest si sarebbe potuto definire ancora “vergine”.
Come da prassi, viene interpellato il governo nepalese. Per scalare la montagna serve un permesso che però non viene concesso. Al team viene proposta la cima di un'altra montagna ma non è quello l'obiettivo; sono disposte ad attendere il tempo necessario affinché le pratiche burocratiche sblocchino l'occasione di una vita intera.
Nell'agosto del 1972 venne rilasciato il benestare per un tentativo, valido soltanto per il 1975. Nel 1974 la squadra fa un test e Junko ha ottime sensazioni, vede le compagne coese e concentrate. Sente che, se tutto fosse andato per il verso giusto, ci sarebbero state buone possibilità di toccare il tetto del mondo.
“Nel febbraio del 1974, un anno prima della partenza per l'Himalaya, abbiamo organizzato un campo di addestramento invernale a Gaki-dake. In una giornata nevosa, abbiamo aperto una traccia per tutto il percorso, fino alla cima della montagna. Lì ho finalmente potuto constatare ciò che la squadra aveva da offrire: tredici donne che avanzavano in salita con un ritmo deciso, senza lamentarsi. Dentro di me trovai una forza nuova che invase tutto il mio corpo. Mi convinsi che avremmo raggiunto il nostro obiettivo sull'Everest. Spesso ho attinto alle sensazioni di quel giorno per arrivare in vetta."
Nell’aprile del 1975 la squadra è finalmente all'opera sulla montagna. I portatori sono rimasti al campo base sul ghiacciaio del Khumbu, altri sono già tornati indietro, gli Sherpa invece cominciano ad attrezzare e supportare le alpiniste giapponesi.
I campi cominciano ad essere installati sempre più in alto e, allo stesso tempo, iniziano i primi problemi. Oltre alla fatica c’è chi si ammala e deve essere immediatamente aiutata a spostarsi in basso, ci sono inconvenienti logistici causati dalla sporcizia lasciata in quota dalle spedizioni precedenti ma c’è soprattutto una valanga che il 4 maggio del 1975 punta dritta verso uno dei campi alti. L’impatto è devastante ma, miracolosamente, non ci sono vittime. L’immondizia in quota aveva costretto l’allestimento del campo in una posizione più defilata rispetto al previsto; una dinamica spiacevole ma fortunosa, perché la valanga non sprigiona lì tutta la sua potenza. Junko comunque viene travolta in pieno, perde i sensi ma riesce a salvarsi. Campo 2 è disintegrato, c’è tanta paura e moltissimi acciacchi che impediscono la progressione.
Non ci sono finestre di bel tempo che consentano la risalita dell’Everest e tutto sembra ancora più difficile. Passa poco meno di una settimana e il 10 maggio la squadra si esprime: soltanto tre di loro potranno tentare la vetta, un’ultima possibilità prima che il tempo peggiori nuovamente. Junko è fra quelle, ma due giorni dopo rimane la sola. Sulla carta è lei l’unica in grado di salire in cima.
Comincia così l’ascesa di Junko Tabei e dello sherpa Ang Tsering. Superano insidie, sopportano un freddo glaciale, sopravvivono alla zona della morte, rimangono in equilibrio su creste ghiacciate, subiscono tempeste di vento e neve, poi il 16 maggio del 1975 l’Everest - 22 anni dopo la prima salita assoluta - accoglie in cima una donna.
Alle 8:30 del mattino, dopo aver lasciato la tenda nel cuore della notte, Junko Tabei riesce laddove nessuna prima di lei era mai arrivata. Non è un evento legato ad un individualismo, è un successo che si basa su una forte determinazione collettiva e un enorme lavoro di squadra. La ciliegina sulla torta però è stata affidata a colei che, dopo la valanga, aveva recuperato nel migliore dei modi.
La stampa internazionale è attratta magneticamente dalla notizia di Junko Tabei in cima all’Everest; in pochissimo tempo la sua immagine viene riscritta e le critiche si appiattiscono: quella donna minuta diventa un gigante nel panorama alpinistico.
Lo conferma ancor di più 17 anni dopo, nel 1992: completa il progetto Seven Summits, raggiungendo i punti più alti di ogni continente.
Junko Tabei ha avuto la forza di imporsi nonostante lo stereotipo sociale destinato alla figura femminile nel mondo alpinistico, ha incoraggiato generazioni di ragazze nell’approcciare attività all’aria aperta esortando a riconoscersi al di fuori di ogni etichetta, ha avuto la determinazione di rinascere - dopo un periodo buio - diventando un modello aspirazionale che supera ogni confine di genere.
“Nel mondo alpinistico è necessario essere chiari con gli altri, non c'è tempo per messaggi ambigui. Fondamentalmente, una persona deve essere in grado di esprimere la propria opinione senza preoccuparsi delle critiche. Rendersene conto per la prima volta all'età di trent'anni è stato illuminante e ha cambiato la mia vita. Ancora una volta, le montagne sono state le mie insegnanti.”