L’Italia nord orientale è un miscuglio di territori diversi.
Montagne, colline, pianure, mari e lagune caratterizzano un paesaggio in costante evoluzione; una diversità che si manifesta nell’arco di pochi chilometri e che garantisce moltissime possibilità economiche. Una porzione di mondo da sempre sotto la luce dei riflettori, ricca di storia e di tradizioni centenarie basate sul lavoro. Professioni dure, artigianali, industriali, agricole, di fatica.
La laguna Veneziana è stata accentratrice fin dai tempi remoti, il legname alpino ha solcato i fiumi per secoli, intere comunità hanno viaggiato per le pianure per vendere merci, famiglie contadine hanno coltivato prodotti d’eccellenza, pastori e animali hanno mantenuto gli alpeggi che dall’alto Vicentino corrono fino ai confini della Slovenia facendosi sempre più remoti, i maestri d’ascia hanno fatto la storia nei cantieri navali di Venezia e Trieste, nei due porti per eccellenza che si affacciano sull’alto Adriatico. Venezia e Trieste, due potenze dei mari a poca distanza l’una dall’altra. Venezia e Trieste che aprono il palcoscenico di questa storia: bisogna tornare indietro nel tempo, negli anni ‘90 del 1800, cercando di visualizzare una scena ben precisa.
C’è una donna con uno scialle in testa, zaino in spalla e valigia in mano, un vestito lungo fino alla metà di polpacci robusti abituati al cammino. Percorre una strada bianca, al di fuori delle porte di Verona. Oltrepassa campi coltivati, ruderi e cascine. Qua e là qualche cavallo nitrisce nelle fattorie di campagna. La donna si dirige a est, verso il mare, più precisamente verso la laguna. Si potrebbe pensare che sia interessata a Venezia, a trovare lavoro in città, a stravolgere la sua quotidianità in una città unica al mondo, ma invece non è così. Venezia la passa, la accarezza per poi proseguire. Risale la laguna nelle terre desolate e apparentemente infinite che conducono ancora più sù. Percorre un arco nei giorni di cammino, un arco che curva a destra e che punta dritto verso il porto di Trieste. Renata Cartago si stabilisce proprio lì. Conosce un maestro d’ascia, di nome Antonio. Di cognome fà Comici. Renata Cartago e Antonio Comici si innamorano, mettono su famiglia e danno alla luce tre figli. Emilio, Gastone e Lucia.
Questa è una parte di storia di Emilio Comici soprannominato l’Angelo delle Dolomiti.
La storia di Emilio è figlia di una società che si sviluppa all’alba del primo conflitto mondiale, condita da tutte le conseguenze di una guerra spietata e desiderosa di nuovi riferimenti a cui ispirarsi. Le grandi imprese, le grandi avventure, i grandi viaggi ai confini del possibile cominciano ad attrarre il pubblico italiano e internazionale. Sono gli anni in cui l’essere umano e le montagne si incrociano definitivamente, anni in cui gli echi dell’alpinismo portano in quota il turismo.
Vogliono vederli dal vivo e se non dovessero riuscirci vogliono perlomeno ammirare gli scenari in cui si arrampicano. C'è voglia di sognare e di immaginare che un giorno - lassù su quelle cime - si potrebbe salire. Anche perché alcuni personaggi sembrano non fare fatica, sembrano danzare su roccia come se fossero sul parquet di casa. Sembrano nati e cresciuti sulle pareti; uno di questi e` proprio Emilio Comici.
Emilio in tenera età percorre una strada differente da quella dei classici predestinati. Non brilla particolarmente, anzi e` piuttosto anonimo. Non viene illuminato dalla luce dei riflettori, il pubblico che lo acclamerà deve ancora scovarlo e nel frattempo Emilio deve farsi le ossa.
E’ decisamente affezionato alla madre che non fa mancare nulla ai figli. Li tiene coesi, compatti, uniti anche nei momenti bui. Momenti che non mancheranno, momenti di sconforto, di perdizione e di lutto. Ma ci arriveremo, per il momento il focus della famiglia Comici e` sempre su Emilio.
Viene alla luce il 21 febbraio 1901, e` un giovedì. Quel giorno il sole illumina Trieste alle 06:59 mentre la bora che soffia da nord-est spinge forte sulla città, agitando gli scuri delle finestre e facendo volare lontano i cappelli di chi si avventura per strada. C'è chi si aggancia a corde e ringhiere per non finire a terra. Le barche giù al porto sembrano impaurite da quanto si agitano, mentre gli alberi delle vele cigolano e scricchiolano.
Emilio cresce accanto all’acqua; Trieste e` un importante sbocco sul mare per l’impero austro-ungarico e - come Trento - un acceso focolare irredentista. Una terra di frizioni e dissidi. Pullula di scambi, commerci, migrazioni. Nel centro urbano e limitrofi arrivano spesso le popolazioni di confine, italiani e slavi su tutti. A Trieste sono accatastate mentalità e culture diverse che sfociano in forti contrasti, soprattutto in occasione della Grande Guerra. L’irredentismo emerge dalla borghesia e come contromossa gli austriaci comprimono ogni sorta di manifestazione patriottica a favore dell’Italia. In quegli anni in città non e` sicuro esprimersi a favore del Regno d’Italia ma e` l’unica speranza possibile per chi è rimasto. Le giovani generazioni salutano i padri, gli zii, i nonni, i cugini. Tutti spediti al fronte, lontano da Trieste. Corrono voci: gli irredentisti non sparerebbero mai ad un italiano e quindi via in Russia, a fare la guerra contro sconosciuti per evitare i sensi di colpa e rendersi utili alla causa austro-ungarica.
Al popolo vengono chiusi i locali e proibiti i ritrovi nelle associazioni, viene addirittura minato il porto nel caso in cui le forze avversarie decidessero di invadere la zona via acqua. Le forme di protesta vengono combattute con divieti e violenze, non si può nemmeno andare a pescare. Troppo rischioso.
Una città intera viene sventrata da dentro, trasformata in un fortino che però ribolle di rabbia. Chi vede gli aerei da combattimento italiani in avvicinamento esce in strada per applaudirli
La famiglia Comici e` pienamente coinvolta in questa matassa di malumori, tensioni, paure e incastri politico-militari che imperversano nelle zone di guerra prossime al fronte.
Da mangiare ce n'è` fin troppo poco. Ci si arrangia inventandosi i piatti, immaginando che al posto della crosta di pane ci sia altro. La mente gioca un ruolo fondamentale per la sopportazione, per non guardare al passato e immaginare un futuro diverso. Un futuro in cui la parola d’ordine e` pace mentre la città cade in una profonda depressione.
Emilio ha 14 anni quando l’Italia entra in guerra.
E’ un ragazzo sensibile, avverte precisamente la pressione del conflitto e allora prova a distrarsi. Suona mandolino e chitarra, oltretutto ha anche una bella voce. Lui e la madre cantano e suonano, si sfogano così in attesa di tempi migliori.
Con il passare dei mesi Emilio si chiude in se` stesso, si tinge l’anima di un grigio fumo che ricorda quello dei bombardamenti. Si isola sentendosi galeotto in casa propria; tutto quello che stanno vivendo non e` naturale. Trieste non brilla più.
Emilio nel 1916 lascia la scuola e viene assunto come impiegato nei magazzini generali portuali. Non ha vizi, nessuna frivolezza. Solitario ma desideroso d’appartenenza si unisce alla società ginnastica Triestina. Oltre al corpo si sarebbe formato anche politicamente. E quel prurito irredentista lo spinse a sposare il nazionalismo italiano.
In quell’ambiente si raccontavano le gesta di un irredentista molto agguerrito, nonché artista e con le mani invischiate nella creazione di ordigni esplosivi: Napoleone Cozzi. Ma non solo, Napoleone era anche un grande alpinista.
Nel 1902 risale una fessura sul campanile di Val Montanaia, la celeberrima “fessura Cozzi” che oggi brilla di unto da quanto è stata ripetuta. Il campanile è un obelisco roccioso custodito da un anfiteatro naturale degli Spalti di Toro, un simbolo delle Dolomiti Friulane sul quale apporre la firma.
La cordata Cozzi-Zanutti è impegnata a cercare l’accesso che apre la strada alla vetta.
Passata la fessura però si fermano, accatastano qualche sasso formando un ometto. Non intravedono un traverso vertiginoso - ma piuttosto semplice - che li avrebbe condotti in cima. Ma il 1902 è comunque l'anno della prima salita, attribuita però a due austriaci capaci di farsi "suggerire" dai triestini i segreti della parete sud.
Victor Wolf Von Glanvell e Karl Gunther Von Saar scovarono l'ultima sezione di parete percorribile prima dell’arrivo in vetta, non vista dagli italiani.
E ancora, fra le tante, nel 1910 Napoleone Cozzi e Alberto Zanutti, dopo anni passati sulle Alpi Orientali, danno lustro a un torrione dolomitico nel gruppo della Civetta. Lo chiamano, guarda caso, Torre Trieste.
Emilio non rimane impassibile al fascino e allo spirito di Cozzi.
Dopo anni difficili, la guerra termina.
Il 30 ottobre 1918 l’occupazione austriaca giunge al termine, la gente si riversa per le strade a festeggiare. Pochi giorni dopo sbarcano i bersaglieri da Venezia, a simboleggiare l’inizio di una nuova era. Ma sovvertire una comunità così variopinta e complessa non era semplice. La liberazione fu un passaggio obbligato in cui però si sedimentarono ulteriori malumori.
Emilio nel frattempo continua a lavorare, si scopre un atleta di ottimo livello nella Società Ginnastica Triestina e aderisce al partito fascista sulle ali dell’entusiasmo promesso da Benito Mussolini e da un movimento che fa leva sui malumori. Il Duce delinea un futuro di glorioso per il popolo italiano e non lascia troppe possibilità di scelta ai civili: o sono con loro o sono contro di loro, nel vero senso della parola. Emilio accetta di schierarsi, di accettare quella visione. Una scelta che vedeva come “eroe” chi si adoperava in imprese estreme e quindi perfettamente in linea con Emilio.
Nel 1921 e nel 1922 attraversa due fasi molto importanti della sua vita, due momenti che lo porteranno ad essere ciò per cui viene ricordato.
Nel 1921 entra a far parte dell’associazione XXX Ottobre, il cui nome rivendica la fine dell’occupazione asburgica di Trieste. Un’influenza che però è rimasta in città e che si manifesta nel salutismo, nell’attività fisica, nella cura del corpo, nel mantenersi in forma. Tutti elementi intrinseci alla XXX Ottobre con cui Emilio si consacra sportivamente. Inoltre si avvicina anche alla speleologia, esplorando le grotte del Carso.
Il 1922 è un anno difficile per la famiglia Comici. In casa si devono fare i conti con una diagnosi tremenda. ALucia viene riscontrato un tumore al cervello. La malattia la debilita sempre più ma lei la sopporta e l’affronta con estrema dignità. Prima di andarsene consegna a Emilio un braccialetto; lo porterà sempre con sé e il tintinnio riecheggia dai budelli del Carso ai paradisi Dolomitici.
L’associazione XXX Ottobre è il polo della socialità dei giovani atleti e delle giovani atlete dell’epoca. Le attività speleologiche gli garantiscono lustro nel biennio tra il 1926 ed il 1928, anche se quelle spedizioni nei meandri del Carso sono fatte in economia.
Non hanno corde, scale e attrezzature. Hanno soltanto delle lanterne a mano. Ciò limita le esplorazioni, non si può scendere al di sotto di una certa quota.
Emilio e compagni si trovano immersi in un mondo sconosciuto e stimolante. Chi scende in profondità si segna tutto in un quaderno, carta e penna non mancano mai. Numeri, rilevazioni, dati accomunano gli speleologi; in competizione a chi arriva più in basso, un alpinismo alla rovescia. Finché Emilio non decise che era arrivato il momento di investire dei soldi e la squadra speleologica della XXX Ottobre andò oltre i -270 metri di profondità. Riescono addirittura a far segnare il record mondiale dell’epoca; un numero forse leggermente approssimato per eccesso ma che comunque desta scalpore: -500 metri.
Poi un giorno, risalendo dall’abisso di una cavità del Cansiglio, gli viene fatta una domanda; una domanda semplice, senza pretese, un invito rivolto a chi ormai si era consacrato sotto terra: “Comici perché non vieni in montagna?"
Diventerà la sua ragione di vita, una fede che lo porterà a stravolgere l’alpinismo dolomitico e non solo.
Emilio non è mai stato un predestinato.
Né da bambino né tantomeno da adulto; però ha sempre dimostrato una mentalità devota agli obiettivi che si prefigge. La sua vita ruota attorno a sogni che poco alla volta si rivelano concreti.
In un primo momento risale le montagne approcciando le vie normali, poi alza la posta in palio dedicandosi all’alpinismo. Sente di poter dare qualcosa in più. Ma la strada si rivela in salita, alla stregua delle Alpi Giulie con cui si confronta.
La tecnica speleologica acquisita in anni di esplorazioni non è sufficiente per quegli ambienti. Non è sufficiente per scrivere la storia, per diventare leggenda.
I primi approcci col mondo verticale sono delle bastonate che lo inducono a riflettere ma non lo abbattono; si rende conto di non essere speciale, di dover partire da zero e con umiltà, confidando in una cultura sportiva che gli ha insegnato ad accettare la sconfitta.
Non per piangersi addosso, ma per migliorare.
A pochi chilometri da Trieste scopre la Val Rosandra. Le falesie di questa vallata sono a portata di mano, non è necessario mettersi in viaggio per trovare la roccia su cui allenarsi. E’ quello il posto giusto per diventare più forti.
Emilio gode di un’alta considerazione e saperlo lì, incuriosisce. A poco a poco in Val Rosandra arrivano sempre più persone e l’intera zona viene rivalutata. Comici, oltre ad arrampicare, desidera trasmettere i valori di quella disciplina.
Diventa una questione di stile, Emilio sulla roccia danza.
Non sembra nemmeno faticare da quanto ripete con eleganza ogni movimento.
Una gestualità figlia di una mentalità vincente, predisposta al sacrificio; Comici si dimostra abilissimo nonostante abbia dovuto plasmare un talento ormai divenuto indiscutibile.
Nel 1929, in Val Rosandra, avvia la prima scuola di alpinismo italiana.
Vuole condividere le sue esperienze affinché chiunque possa avvicinarsi al mondo verticale; un avvicinamento consapevole, in grado di limitare le variabili di una disciplina oggettivamente pericolosa. In parete non si scherza e Comici lo sà benissimo.
In compagnia di Giordano Bruno Fabian - sempre nel 1929 - disegna una linea destinata ad entrare nella storia dell’alpinismo: sulla Sorella di Mezzo nel cuore del gruppo del Sorapìs viene realizzata la prima ascesa di una via di VI grado.
E la notizia si diffonde nelle valli, si parla di quei due uomini capaci di raggiungere i limiti dell’impossibile. Comici viene esaltato dalla stampa, il regime spinge su un nuovo ‘eroe’: un cittadino nato lontano dalle montagne che grazie alla tenacia e al duro lavoro ora si muove come un angelo sulle Dolomiti.
Nel triennio successivo Emilio Comici non si ferma, anzi.
Approccia la montagna con la teoria della goccia d’acqua cadente che dalla cima arriva alle pendici tracciando una linea immaginaria verticale; lui ricerca il medesimo concetto ogni volta che ipotizza un’ascesa. Una linea il più verticale possibile, dai ghiaioni di fondovalle fin sopra le nuvole.
Il 1931 è l’anno di un altro capolavoro, questa volta assieme al compagno di scalata Giulio Benedetti: sulla parete N-O del Civetta Comici e Benedetti aprono una nuova via; difficile, complessa, agghindata da passaggi assolutamente non banali passati quasi esclusivamente in arrampicata libera. Soltanto sugli strapiombi più duri, con al di sotto centinaia di metri di baratri, ricorrono ad un approccio artificiale.
Arrivano in cima e per Emilio è un altro tassello importante per una passione oramai sfociata in una ragione di vita. La montagna lo chiama e lui risponde presente.
Nel frattempo continua a vivere Trieste e a lavorare come impiegato nei Magazzini Generali Portuali. Ma quello che avverte nell’anima lo inquieta: si guarda in giro e non si riconosce, osserva la gente e ne percepisce i brusii. E’ un ciuffo d’erba cresciuto nelle crepe del cemento, omogeneo e compatto. Cemento che lo schiaccia, che lo opprime.
E’ molto attaccato agli ambienti alpini, all’odore dell’aria secca e pungente delle terre alte. A Trieste non si sente l’Emilio dei fine settimana o dei giorni di ferie, si sente incoerente.
Vuole vivere di montagna ogni giorno, è disposto addirittura a correre il rischio di perdere un posto di lavoro per vivere della sua passione Un azzardo che negli anni ‘30 del novecento sembra una follia e che invece nasconde un enorme coraggio. Emilio, non senza patemi d’animo, lascia tutto e se ne va. Vuole fare la guida alpina, una professione prettamente valligiana, che si scontra con chi - in montagna - è maldisposto alle novità. Figurarsi se il nuovo lo porta un triestino. Lui è un foresto e nemmeno l’aver aderito al partito fascista lo allontana da invidie, gelosie e preoccupazioni. Le guide cortinesi temono il blasone di Emilio Comici, non lo accettano nella valle ampezzana. Perché è proprio quella la prima scelta di Emilio, “esiliato” a Misurina, al di fuori delle principali rotte turistiche. Come se non bastasse Comici perde tutti i suoi materiali da guida e maestro di sci, carbonizzati in un incendio doloso. La scelta della montagna come fulcro della sua esistenza e dei suoi ricavi si fa, sin da subito, molto difficile anche per un fuoriclasse del suo calibro.
Da quando è uscito dalle umide grotte del Carso, Emilio Comici ha cominciato a essere sulle pagine dei giornali, diventando un riferimento per il mondo verticale. Non era il migliore ma era diventato un alpinista molto influente; era elegantissimo, un ballerino su roccia con una disciplina granitica: l’allenamento lo aveva proiettato in un’altra dimensione. Aveva sfornato il primo VI grado italiano, aveva disegnato una nuova linea sulla Civetta, oltre a numerose altre vie, tutte accomunate da uno stile inconfondibile.
Lo stile di Emilio Comici era un concetto oggettivo e nel 1933 arrivò l’occasione di una vita: la parete Nord della Grande di Lavaredo, un tabù che fino ad allora nessuno era riuscito a sfatare.
In tutto questo Emilio rimaneva un uomo timido e introverso; tra le sue compagnie di cordata c’era però una donna Maria Gennaro - detta Mary - Varale, fortissima alpinista e moglie di un giornalista sportivo: Vittorio Varale.
Vittorio non solo ammira Comici ma lo esalta a tal punto da chiedersi se non fosse troppo per l’indole di un uomo piuttosto schivo. Ecco quindi la nascita di un’eco mediatica non ricercata e che induce Emilio a doversi difendere da critiche, attacchi e invidie. Spesso anche a subirle.
Nel 1933 arriva quindi la consacrazione definitiva su un palcoscenico incredibile.
La Nord della Grande è la parete più alta e impressionante delle Tre Cime di Lavaredo e Comici è sotto a quella muraglia giallonera. C’è già stato un tentativo ma la Nord si era subito fatta troppo severa. Julisu Kugy, amico di Comici la definisce “impossibile per sempre”. Ma non andò esattamente così.
Nonostante i rapporti tesi con la valle ampezzana, sono proprio due fratelli cortinesi Angelo e Giuseppe Dimai a presentare a Comici la grande opportunità di un assalto al verticale assoluto della Nord. Emilio, accetta. Mette da parte i dissidi e và.
Tra il 12 e il 13 agosto 1933 la cordata attacca e alle 10 del mattino del 13 raggiungono i 2.999 metri della Cima Grande di Lavaredo. L’impossibile è diventato possibile grazie a tre uomini, di cui uno - Comici - fondamentale. Come per ogni grande impresa di quegli anni, non vengono risparmiati attacchi e commenti. Nemmeno da parte dei fratelli Dimai verso il loro compagno di cordata, uno dei simboli delle Dolomiti si era concesso solamente grazie alla maestria di un triestino. Inaccettabile per i valligiani cortinesi che non gli attribuirono i giusti meriti per il supporto e il lavoro di quei giorni.
Una parete su cui, dice Comici, è necessario “dominare la paura, da quanto è verticale”.
La diatriba prosegue nel tempo, i fratelli Dimai omettono dettagli e, in risposta alle denigrazioni, Comici invia una lettera al presidente del CAI. Ecco qualche riga “Io, il compagno di cordata lo venero come un fratello; quando ho scritto qualche relazione ho sempre innalzato il suo valore, mai l’ho abbassato, in tentativi di demolizione di cui mi vergognerei. Purtroppo l’ambiente di Cortina guastò i fratelli Dimai, i quali pretesero di avere essi (o meglio, Giuseppe) il merito principale della vittoria. Io sono per temperamento lontano da queste piccolezze, che già sul libretto della vetta, quanto sul registro del Rifugio, avevo segnato il mio nome per ultimo: sicché quando i fratelli Dimai vennero da me a pretendere una dichiarazione scritta (!) non ebbi alcuna difficoltà a concedergliela, in cuor mio compatendoli per tanta vanità. Né, per quanto sollecitato da giornali e riviste, di scrivere, dietro compenso una relazione della scalata, accettai quelle proposte, appunto per non accendere discussioni. Il mio comportamento, troppo generoso, è stato mal ripagato. E proprio dalla persona alla quale credevo mi unisse una salda ed eterna amicizia, cementata nelle ore della lotta. Non è bastato che io cedessi generosamente in via privata la parte del merito principale che mi aspettava; anche pubblicamente, ora, si è voluto infierire su di me. Questo non lo posso permettere, e perciò mi trovo costretto, Eccellenza, a pregarla rispettosamente di voler ospitare nel primo numero della Rivista Mensile la doverosa chiarificazione che a parte Le eccludo, e dalla quale vorrà riconoscere la compostezza e la misura. Accolga i sensi della mia alta stima e devozione”.
Se le parole dei cortinesi erano state rese note dalla stampa, alla guida alpina triestina non venne concessa la replica dal Presidente del CAI per “non iniziare una polemica a carattere personale”. Emilio incassa il colpo e prepara una risposta che arriverà 4 anni dopo: nel 1937 è di nuovo sotto la Nord di Lavaredo che, nel frattempo, è stata chiodata in ogni fessura pur di ripetere la salita del ‘33.
C’è però una particolarità: Comici è da solo.
Nella rivista mensile CAI 1937 Giordano Bruno Fabian pubblica un articolo in onore di quella rivincita e di una vera e propria impresa:
“Emilio Comici, il 2 settembre ha ripetuto da solo la salita della Parete Nord della Cima Grande di Lavaredo, impiegando dall’attacco alla vetta il prodigioso tempo di ore 3,45 (continua) La parete, strapiombante da capo a fondo, è alta circa 600 metri e si può dividere in due tratti: uno, di circa 250 metri, di puro VI grado ed il rimanente di V grado. (continua) Ha attaccato la parete alle ore 11, munito di 6 chiodi, 10 moschettoni, 30 m di corda e 25 m di cordino. Corda e cordino li ha portati per usarli solo in caso di un’eventuale discesa, qualora non avesse potuto passare. Eccetto che nella traversata iniziale, non si è mai assicurato per non perdere tempo e per utilizzare tutte le più riposte energie, richiamate alla superficie da un potente e costante sforzo di volontà, che ha qualcosa di sovrumano (continua) Si pensi a quanta forza è necessaria per poter vincere certi strapiombi senza alcuna sicurezza e senza l’ausilio della trazione dal basso (continua) Con questo insigne atto, Comici ha riaffermato lucidamente la sua esuberante e singolare personalità di alpinista e di atleta, ponendola al di sopra della logica comune (continua) Sotto il profilo atletico e sportivo, la scalata solitaria di Comici della parte Nod della Cima Grande di Lavaredo esprime l’acme delle qualità virili della razza umana rigenerate dal Fascismo e, rappresenta un primato inconfutabile dell’alpinismo italiano, di vasta portata e risonanza.”
Durante l’ascesa Comici incrocia una cordata tedesca, la supera ma sopra ad un pulpito si stacca un grosso masso; la roccia fischia verso i tedeschi, ecco le parole di Kilian Weissensteiner:
“Era già salito alcuni metri sopra di noi, quando un blocco di considerevoli dimensioni si staccò sotto di lui. Lanciammo un grido, ma fortunatamente il masso, precipitando nel vuoto, ci sfiorò e ferì leggermente il mio camerata Holler.
Comici, visto il masso cadere ed udendo il nostro grido, fu preso dal timore di una disgrazia e immediatamente, in discesa libera, ci raggiunse.
Noi lo accogliemmo con molta riconoscenza per il suo cameratismo e per il suo alpinistico sentimento di aiuto: lo rassicurammo che nulla era accaduto di grave, e lo lasciammo riprendere verso la sua alta meta”
Dal ‘33 al ‘37 Comici colleziona quindi una serie di imprese leggendarie: nel 1933 la Nord di Lavaredo e lo spigolo Giallo in compagnia di Renato Zanutti e Mary Varale sulla Piccola di Lavaredo, nel 1936 la prima solitaria del Campanile Basso nelle Dolomiti di Brenta, oltre a molte altre ascese.
Nel 1940 l’ultima grande impresa insieme al vicentino Severino Casara, in Val Gardena nel Gruppo del Sassolungo. Il 29 agosto - tra le 14:30 e le 15:00 - la cordata è in cima al cosiddetto Salame del Sassolungo, un campanile dedicato a “Italo Balbo” definito, sempre da Fabian, come una “muraglia per lo più strapiombante di 500 m di altezza mai neppure tentata perché troppo superiore all’osabile”. Un tracciato quasi del tutto in linea con la teoria di Comici, la teoria della goccia d’acqua cadente.
51 giorni dopo è il 19 ottobre.
Comici si unisce a un gruppetto di amici, non ha voglia di arrampicare.
Emilio quel giorno incontra la morte, precipitando per circa 50 metri dalla parete Campaccia in Vallunga. Si affida a un cordino marcio che non regge la tensione del suo peso. Precipita, rimbalza una prima volta e poi una seconda. Atterra praticamente in piedi, sembra che non si sia fatto nulla. Ma già il primo impatto è stato fatale, Emilio si accascia al suolo e “morto l’uomo, ha inizio il mito”.
Comici ha rappresentato lo stile, ha rappresentato l’eleganza, ha rappresentato la purezza nell’approccio alla montagna. Aldilà dell’alpinismo si è reso portatore di un messaggio: quello del rischio, quello di credere nei propri sogni, quello di sfidare anche chi nella sua immaginazione vedeva soltanto il fallimento. In quanti, da cittadini, avrebbero mai immaginato di poter vivere di montagne?
Emilio Comici ha avuto la forza di scommettere su una passione, una scelta difficile, moderna e attuale che gli ha permesso di vivere al meglio anche il buio che attanagliava il suo spirito.